Roberto Casati

31 Marzo 1992

 

Paesaggi Mentali

 

Esiste una serie di stereotipi che circondano la figura e l'attività del filosofo; sono stereotipi molto diffusi e molto influenti. Credo che sia molto difficile liberarsene. Spesso essi condannano il filosofo e gli impongono un comportamento pubblico. A volte lo influenzano fin nel cuore della sua attività, imponendogli scelte di pensiero. Un caso simile, credo, si pone per gli artisti, almeno in questo secolo. Le aspettative nei confronti degli artisti sono molto elevate, e dipendono spesso da un'idea imposta dal critico d'arte. L'artista sembra doversi inserire in una linea di `superamento' - di un altro artista, di un movimento. Se un artista produce un'opera che richiama troppo fortemente l'opera di un suo collega, tendiamo a giudicarlo negativamente, anche se l'opera ci sembra profonda o interessante. L'artista deve altresì - ci vien detto - essere `autentico (l'autenticità non dev'essere qui confusa con l'originalità): è un requisito misterioso e difficile da spiegare, ma grosso modo si tratta di questo: l'artista dev'essere fedele alla propria epoca, deve in qualche senso incarnarla. Un concetto affine è quello della sedicente verità di un'opera d'arte. Così, l'architetto che decora oggi un edificio con dei fregi art nouveau viene considerato al meglio come un eclettico, e spesso come un disonesto; certamente gli si imputa una bizzarra concezione della creatività; egli è quantomeno avulso dal suo tempo. Che il risultato della sua opera sia bello o piacevole o vivibile ecc., non conta, pare, se la sua opera non è benedetta dal marchio dell'autenticità, della verità. Ma chissà che cosa significa tutto questo.

Tra un istante darò cercherò di chiarire la costellazione di pensieri che si raccolgono intorno all'immagine del filosofo. Voglio però mettervi sull'avviso. Non intendo discutere di metafilosofia. Nonostante la mia conferenza si iscriva in un ciclo intitolato `Was ist Philosophie', penso che tradirò la richiesta d'una risposta più o meno esatta a questa domanda. In realtà, non ho mai dato molta importanza alle questioni metafilosofiche e alle scelte di campo. Ho la presunzione (al pari forse di molti filosofi?) di essere dotato di un certo buon gusto, che mi fa capire, leggendo una pagina di filosofia, se si tratta di buona o cattiva filosofia; anzi addirittura di capire se si tratta di filosofia tout court. Ma si tratta di presunzione. Nonostante abbia una spiccata preferenza per un genere di filosofia abbastanza informale, privo di termini tecnici, colloquiale e argomentativo, non ho una definizione di filosofia da offrire: neanche del genere di filosofia che mi piace. Da un certo punto di vista, diffido anche delle definizioni in generale. E diffido in particolare dell'ansia definitoria dei filosofi nei confronti della propria attività. Dopotutto, non è strano che i filosofi rischino di essere veramente isolati in questo desiderio di giustificazione del loro lavoro? Un dentista non sente il bisogno di definire l'odontoiatria. Può non trovarsi mai di fronte al problema di questa definizione, ed essere un ottimo dentista. Perché non potrebbe accadere lo stesso per il filosofo?

Cercherò di evitare pertanto le definizioni, e di concentrarmi su un aspetto che mi sembra normalmente sottovalutato nelle discussioni sulla filosofia. La mia idea è che non è stato considerato a sufficienza un fattore dell'attività del filosofo, un fattore che tuttavia mi sembra cruciale. Si tratta, in breve, di questo: che cosa rende l'attività del filosofare attraente agli occhi del filosofo? Che cosa c'è di bello, di interessante, nell'attività del filosofare? Naturalmente non ho una risposta generale da dare; non intendo presentare un trattato di psicologia della filosofia. Voglio semplicemente presentare la mia esperienza. Le considerazioni di carattere generale avranno pertanto natura ipotetica. Se la mia risposta alla domanda su ciò che rende attraente l'attività del filosofare è una buona risposta, che può venir condivisa da molti altri filosofi, essa, come vedremo, avrà delle conseguenze quanto al tipo di aspettative che si possono avere nei confronti dei filosofo. Mi occuperò, in quanto segue, di due aspettative: una riguarda i risultati del lavoro filosofico; l'altra concerne gli effetti che l'attività del filosofo può avere sulla sua vita e sulla vita degli individui che sono filosofi, o hanno a che fare con i filosofi o che semplicemente hanno la possibilità di accostarsi al loro lavoro. In questo modo, credo, anche se non avrò dato una risposta alla domanda sul quid della filosofia, non mi sarò allontanato troppo dal soggetto di questo ciclo di conferenze.

I.

Ho appena detto che non mi occupo di metafilosofia, ma ritengo comunque necessario dare una breve lista di caratterizzazioni dell'attività filosofica. Questo per mostrare come quanto intendo sostenere nel seguito possa venir considerato neutrale rispetto a queste caratterizzazioni.

Per alcuni il filosofo è una sorta di poliziotto del pensiero, che prende nota dei pensieri dello scienziato o dell'uomo comune e cerca di mettere ordine. Per altri il filosofo deve costruire un sistema, nel quale ogni fatto della realtà trovi un posto preciso. Oppure, ancora, il filosofo deve poter pensare su tutto, avere su tutto un'idea. Oppure, si tratta di una persona che sospende il giudizio. O ancora, di una persona che interviene attivamente, ed in tal modo si rende utile alla società. Il filosofo è colui che argomenta - non sempre razionalmente (se mai ciò è possibile) ma comunque inflessibilmente. Il filosofo è colui che ha profonde intuizioni - più profonde anche di quelle del poeta o del musicista: egli vede per così dire l'essenza stessa delle cose. In alcuni casi, il filosofo è colui che crea per eccellenza; perché egli si forgia addirittura un linguaggio nel quale esprimere il proprio pensiero.

La costellazione di pensieri che si affastellano intorno alla figura del filosofo oggi è veramente variegata e non si esaurisce certo nella breve lista sopra fornita. A molti filosofi o sedicenti tali questo complesso di immagini e di preconcezioni sulla propria attività in fondo sembra piacere. Molti fanno anche propaganda attiva nella direzione di un rafforzamento, di un consolidamento di questo o di quello stereotipo. Il risultato non è certo privo di un suo fascino. Sotto l'etichetta di `filosofia' si raccoglie oggi un panorama quanto mai indecifrabile. Voglio qui esprimere una prima tesi polemica, che spiegherò meglio nel corso della conferenza. Supponete di essere un filosofo della tendenza T. Siete naturalmente invitto ai filosofi delle tendenze X, Y, Z, e avete dei motivi per considerare di poco valore il loro lavoro. Quale che sia la vostra tendenza, argomenterete così: gli X non sono dei buoni filosofi, perché si occupano di questo e quest'altro, che non è filosofia; gli Y non sono dei buoni filosofi, perché la filosofia che essi praticano ha le conseguenze tali e talaltre sulla società, e queste conseguenze sono negative. Gli Z trattano un buon soggetto filosofico, ma hanno dei risultati miserabili, perché il loro modo di occuparsi dell'argomento non può che condurre a questi e questi altri risultati, che sono falsi. La mia tesi polemica è la seguente. Nonostante sia possibile che ciò di cui gli X si occupano non sia filosofia; nonostante sia possibile che l'attività filosofica degli Y abbia avuto dei risultati disastrosi sulla società; e nonostante ancora sia possibile che gli Z abbiano avuto dei risultati miserabili; non esiste una relazione causale e nomologica qualsiasi che leghi questi fatti, in s‚ negativi, all'attività del filosofo. Non si può parlare quindi di spiegazione. Se vi sono legami, questi sono del tutto accidentali. La relazione dell'attività del filosofo con il resto della vita di tutti e di tutti i giorni è essenzialmente accidentale - se mi si permette il bisticcio. Ma per poter meglio comprendere la tesi negativa, passerò ora al punto centrale della mia relazione, che costituisce una risposta - la mia risposta - alla questione `che cosa dà valore all'attività filosofica?'.

II.

Un brillante economista americano, studioso di teoria di giochi e della decisione razionale, Thomas C. Schelling, ha pubblicato di recente uno splendido testo, che a mio parere dovrebbe entrare a far parte delle antologie della saggistica anglofona, accanto ai testi immortali di Hume, De Quincey e Mill. Si tratta di un breve articolo, intitolato `The Mind as a Consuming Organ' (in: Choice and Consequence, Cambridge, Mass., and London: Harvard University Press, 1984, pp. 328-346). Il titolo è ambiguo: la mente è un organo che consuma, nel senso in cui diciamo che noi siamo consumatori di beni; e nel senso in cui diciamo che una malattia o una passione ci consuma. Non sono sicuro dell'intenzione dell'autore quanto al doppio senso in inglese, ma lo assumerò per ragioni di comodo.

Il problema affrontato da Schelling è quello dell'imbarazzo provocato dalla mente umana

`to certain disciplines, notably economics, decision theory, and others that have found the model of the rational consumer to be powerfully productive. The rational consumer is depicted as having a mind that can store and process information, that can calculate or at least make orderly successive comparisons, and that can vicariously image, imagine, anticipate, feel and taste and can simulate emotion in order to compare and choose' (342).

Le scienze sociali non si occupano del modo in cui si decide, al ristorante, tra il salmone e l'anatra. Ma un minimo di fenomenologia della scelta sembra indirizzarci così: di solito immaginiamo un morso di salmone, e immaginiamo un morso d'anatra. Li consumiamo mentalmente. Quando poi di fatto consumiamo l'anatra, il consumo potrà essere cerebrale (il nostro cervello consuma scariche ormonali), ma non è più mentale. Il consumo anticipato ha una qualità mentale. Sebbene si possa facilmente riassumere il succo della proposta di Schelling, vale la pena riprodurre alcuni passi in esteso; hanno il pregio di essere estremament vividi. Di fatto, Schelling ci propone due brevi parabole.

`If a gourmet host dawdled thirty minutes choosing the grandest meal of his career, looking at the raw meat shown him by the chef, discussing wine with the wine steward, watching it brought to the table and tastefully served, smiled at the friends assembled around him, delicately sampled the wine and nodded his approval, and watched the first course served impeccably onto everybody's plate - and died instantly of a hearth attack - we'd be tempted to say that the last hour of his life was perhhaps the best half hour of his life. More than that, we might say that it was the most enjoyable meal of his life, one of the best he had ever "consumed"' (343).

La storia mi convince. E penso che Schelling abbia ragione nel generalizzare; egli propone una nozione della mente come organo consumatore: non solo consumiamo con l'apparato percettivo, o con il cervello, che processa stimolazione ormonale; consumiamo anche con il pensiero (344).

`We consume past events that we can bring up from memory; future events that we can believe will happen; contemporary circumstances not physically present, like the respect of our colleagues and the affection of our neighbors and the health of our children; and we can even tease ourselves into believing and consuming thoughts that are intended only to please. We consume good news and bad news.' (343).

Mi sembra semplice trovare un posto all'esperienza del filosofo in questo menu di consumi mentali. Ma permettetemi di continuare la citazione. La seconda storia - io la trovo ancora più convincente della prima - suona così:

`We even - and this makes it a little like traditional economy - spend resources to discover the truth about things that happened in the past. People wish to know that children dead for many years died without too much pain or died proudly. It gets very compounded. If an estranged child makes a painful and urgent journey to arrive at a parent's bedside in time to becoome reconciled just before the parent dies, all that the parent gets is a hour's love and relief before leaving this world. Whatever the worth of a single hour of ectasy, compared with vicariously enjoying Dorothy's trip to Oz, it is entirely mental consuming. The days away from work and the airfare the child spent to be at the dying's parent bedside is a consumer expenditure, a gift to the parent. If the parent dies too soon and never knows that the child is on the way, the investment is largely wasted. If the trip succeeds, the child may consider it the most worthwhile expenditure of his consuming career. One hour's mental consumption.

Furthermore, others will want to know, and will care, whether the child made it to the bedside. There are some who care enough to make large expenditures to hasten the child's arrival or to prolong the parent's life long enough for the reconciliation to take place.

And finally, the whole story can be fiction. We can be gripped with suspense and caring as we wonder whether an entire lifetime is going somehow to be vindicated by an ecstatic discovery, that, after barely an hour, will be estinguished by death' (343).

Schelling suggerisce che si faccia una distinzione tra due ruoli della mente: da un lato abbiamo il trattamento dell'informazione e le funzioni di ragionamento; dall'altro quello di macchina edonistica (pleasure machine) o organo di consumo. (343).

Mi sia permesso di fare qualche osservazione su questi frammenti. Il menu sopracitato di piatti da consumare mentalmente sembra presentare una caratteristica accomunante; la mente tende a consumare in assenza (non necessariamente come sostituzione). I ricordi sono una fonte privilegiata di consumo; gli eventi futuri un'altra. E spesso ci abbandoniamo alla fantasia (nel senso molto quotidiano del termine: fantastichiamo che certe e certe altre cose ci accadano; diventiamo protagonisti del nostro brillante film mentale, o ingigantiamo le umiliazioni). Schelling tuttavia non menziona una caratteristica che mi sembra abbastanza fondamentale. Non è un caso che egli si astenga dal farlo; probabilmente la struttura retorica del suo articolo insiste troppo a fondo sulla separazione della sfaccettatura raziocinante e calcolatrice della mente dalla sfaccettatura consumatrice. Manca qualcosa. C'è un consumo della mente che è prettamente teoretico.

III.

A volte analizziamo con grande minuzia i dettagli di una situazione controfattuale; ad esempio, quando progettiamo di agire in circostanze che ci sono note solo in parte, ma dalla cui esatta raffigurazione dipende il successo della nostra azione. Dobbiamo incontrare una serie di persone durante un viaggio in treno, e dare o ricevere messaggi. Forse dobbiamo fare una breve deviazione su una ferrovia locale, e potremmo anche telefonare a un amico per incontrarlo sul percorso. Ma questi non deve venire a conoscenza di tutto il nostro tragitto, perché potrebbe indovinare una parte degli scopi del nostro viaggio, che preferiremmo tenergli nascosta. Questa serie di pensieri si situa a metà strada tra il ragionamento e la semplice immaginazione; alcune situazioni controfattuali hanno, potremmo dire, certe logiche conseguenze; non soltanto dobbiamo tenerne conto, perché questo ottimizzerà - così speriamo - i risultati della nostra impresa; noi vogliamo anche tenerne conto: è parte del nostro piacere mentale. Ottenere uno scorcio su di un mondo possibile (quello che speriamo verrà felicemente attuato nel nostro prossimo viaggio in treno) è per noi una fonte di piacere mentale; ma, a differenza dal caso del gourmet che programma il proprio piacere scegliendo di fatto da un menu precostituito, la nostra analisi controfattuale riceve valore dalla densità del tessuto della situazione che stiamo immaginando; dalla ricchezza delle situazioni alternative che riusciamo a tenere sotto controllo; dalla possibilità di evitare dei vicoli ciechi; dalla difficoltà delle sfide alle quali troviamo una soluzione, e dalla solidità di queste soluzioni. E non sappiamo, dapprincipio, quale forma prenderà il nostro menu. Esiste in questo caso una dinamica del consumo mentale che dipende dalla sua sfaccettatura teoretica.

Mi sembra che un altro caso in cui il consumo mentale sia fondamentalmente legato alla dimensione teoretica potrebbe venir esemplificato dall'esame di certe rappresentazioni visive. I quadri di Mantegna presentano un mondo in cui colui che guarda può penetrare lo sguardo senza incontrare ostacoli; lo sfumato e la prospettiva aerea, che implicano una perdita di dettaglio e un'indistinzione delle forme lontane, vengono sacrificati. Lo spettatore perde una visione complessiva dell'insieme, che in altri pittori è più convincente; ma è ripagato dalla possibilità di soffermarsi su scene e situazioni la cui qualità visiva è tutta nella ricchezza dei dettagli, e che sarebbero al di fuori della portata di colui che, dotato di una vista normale, osservasse le stesse scene all'aria aperta, dalla stessa distanza. La visibilità viene per così dire esaltata. Di per sé queste scene - contadini al lavoro, rocce, i meandri d'un fiume - sono del tutto banali: è il loro essere a portata della mente, in una situazione in cui altrimenti ciò non sarebbe possibile, a renderle preziose.

Entrambi i casi possono, naturalmente, venir valutati in base al loro valore pratico. Delle buone doti d'immaginazione ci avvantaggiano allorché si tratta di mettersi al riparo da conseguenze spiacevoli delle nostre azioni; e la visibilità del paesaggio è una sicura guida allorché intendiamo trovare in esso la nostra strada. Ma possiamo tranquilamente privare i due esempi della loro connotazione pratica, ed essere perfettamente convinti del valore delle situazioni descritte. Un valore puramente teorico.

Mi pare che lo scopo di queste mie asserzioni debba essere ormai chiaro a sufficienza. Sto difendendo la legittimità e il valore delle attività puramente contemplatiive. Che noi si contempli un mondo possibile - riflettendo in modo controfattuale; o che si insista per aumentare il potere di discriminazione rispetto alle situazioni del mondo reale, in entrambi i casi si sta svolgendo un'attività che ha un valore puramente mentale. La mente consuma queste sue estensioni così come consuma i ricordi e le proiezioni nel futuro. La mente esplora dei nuovi paesaggi, che sono, in alcuni casi, paesaggi soltanto mentali.

 

IV.

Questo mi porta all'ultima parte della mia conferenza, in cui, come ho promesso, cercherò di ritornare a delle considerazioni di carattere generale sulla filosofia. Esistono delle tecniche per produrre dei buoni sogni ad occhi aperti; un modo abbastanza semplice consiste nel lasciarsi guidare da un racconto o un libro; un altro consiste nello scrivere un racconto o un libro (penso che in entrambi i casi la contemplazione sia un elemento centrale.) In filosofia esistono delle tecniche di questo tipo. Una consiste nell'immaginare dei controesempi ad una situazione data. Non è importante, ai miei scopi, che questi controesempi vengano spesso formulati in modo immaginifico, che siano avvolti da un panneggio narrativo. Mi interessa il caso in cui cerchiamo di farci venire in mente un controesempio. Questo deve avere alcune proprietà - deve interagire in modo significativo con la teoria che desideriamo criticare; deve avere il pregio di una certa icasticità; non dev'essere troppo complicato, e deve quindi soddisfare le nostre intuizioni; non deve presupporre niente della teoria che difendiamo. Dev'essere un buon prodotto di consumo mentale. E i filosofi costruiscono controesempi al fine di contemplarli. Un'altra tecnica consiste nell'immaginare le conseguenze di una certa teoria o di un gruppo di definizioni di una teoria. A volte queste conseguenze tratteggiano un mondo possibile che non assomiglia affatto al nostro, ed è interessante esplorarlo nel dettaglio. Supponete che vi sia un mondo in cui, per puro caso, le situazioni dipinte dai vostri sogni si realizzano, contemporaneamente all'esecuzione mentale del sogno, a mille chilometri di distanza e senza che vi sia alcun processo fisico intercorrente tra voi e tale luogo. Supponete che in questo mondo si abbia il diritto di dire che voi non state sognando, ma state percependo quelle situazioni. Questo mondo è quello in cui non vige una teoria causale della percezione. Potrebbe anche essere un mondo in cui dovremmo descrivere quanto accade dicendo che i vostri sogni vengono immediatamente realizzati. Un mondo fatto su misura per certi filosofi; un mondo rigettato da altri. Ma pur sempre un mondo che vale la pena di esplorare. E quale che sia la teoria filosofica del sogno o della percezione che intendiate difendere, l'esplorazione di questo mondo è di per sé un'occupazione piacevole. Questa, in parte, è la mia risposta alla questione su ciò che trovo di interessante nell'attività del filosofo.

V.

Il secondo autore cui intendo far riferimento in questa conferenza è un filosofo delle sceinze sociali, Jon Elster. Il suo libro Sour Grapes pubblicato nel 1983, e recante il sottotitolo `Studies in the subversion of rationality' (Cambridge: Cambridge University Press) contiene un capitolo che descrive un'importante categoria ontologica, quella degli stati che sono essenzialmente dei prodotti collaterali [Ch. II: States that are essentially by-products, pp. 43-108]. Questi stati sono dei prodotti delle (vengono causati normalmente dalle) azioni umane; ma non è possibilie, per l'agente, provocare la loro presenza se forma un'intenzione che porta sullo stato come risultato della propria azione. Un esempio abbastanza a portata di mano è quello del sonno. Non esiste niente di più disastroso per combattere l'insonnia che fare degli sforzi per addormentarsi. Se volete addormentarvi, dovete per così dire ingannare l'insonnia, pensare ad altro, rilassarvi, concentrarvi sulla vostra respirazione, ecc. Il sonno verrà da sé - se verrà. E quando verrà, sarà un prodotto essenzialmente collaterale delle vostre tecniche di rilassamento, deconcentrazione, delle vostre tecniche per ingannar l'insonnia. Un altro caso che mi sembra rientrare chiaramente in questa tipologia è quello della grazia, del comportamento spontaneo. Chi tenta di comportarsi in modo aggraziato, riesce il più delle volte goffo, come ricorda il magnifico brano di Von Kleist sul teatro delle marionette.

 

Che cosa hanno in comune gli stati che sono dei prodotti collaterali essenziali? Se ci limitiamo, come ho fatto in questa sede, alla sfera delle azioni umane, pare che il tratto comune consista in una perdita di centralità dell'intenzione dell'agente. L'intenzione viene spodestata dal suo ruolo di causa primaria dell'azione. Se riuscirete a fare X, questo non avverrà perché avete tentato di fare X; avverrà in maniera del tutto indiretta, e senza un legame causale con la vostra intenzione. Non che il sonno o la naturalezza non fossero l'oggetto della vostra intenzione. Voi desideravate addormentarvi o essere naturali. Ma il fatto che lo desideriate non riesce a causare la realizzazione del desiderio; l'impedisce, anzi. Non si può neppure dire che il caso rassomigli a quello in cui tentate di fare una cosa e non ci riuscite perché intervengono delle circostanze esterne (per esempio, avete tentato di accendere un fiammifero, ma questo era bagnato, e non ci siete riusciti). No: è proprio la vostra intenzione, nel caso che sto presentando, ad escludere causalmente la realizzazione del suo oggetto.

Qual è la relazione col problema della filosofia? Mi limiterò ad esprimerla in forma quasi lapidaria. Così come il sonno è un prodotto essenzialmente collaterale di attività che escludono l'intenzione d'addormentarsi, così la produzione di buoni risultati filosofici è un prodotto essenzialmente collaterale di un'attività filosofica dedita alla contemplazione. E gli effetti della filosofia sulla vita di tutti, e di tutti i giorni, sono parimenti effetti essenzialmente collaterali dell'adozione di un'attitudine filosofica. Non intendo soffermarmi sulla prima di queste asserzioni; illustrerò semplicemente con un esempio la seconda. Un filosofo che si occupi di filosofia morale è tentato di chiedersi se la sua opera può rendere migliore la società, o può veramente contribuire all'edificazione degli individui. Immaginate di voler far interagire la filosofia morale con i comportamenti degli individui. Avete un grande progetto: far sì che una buona parte della popolazione venga educata filosoficamente, segua dei corsi di filosofia morale, in modo da avere una popolazione moralmente più elevata, o semplicemente una società migliore, con un più alto grado di risoluzione dei conflitti. Il progetto non è di per sé peregrino.

Il contenuto della mia seconda tesi negativa è che questo progetto non ha molte speranze di venir realizzato in modo diretto. Non potete ad esempio pensare di dare a un allievo l'opera morale del filosofo K, e sperare che la lettura lo metta nella condizione di applicare i precetti di K in modo tale da migliorare sensibilmente il suo comportamento. Non è detto che questo produca una società in cui, ad esempio, i conflitti siano risolti più facilmente. Se K è un filosofo utilitarista, e il nostro soggetto cercherà di essere un ultilitarista conseguente, potrà essere portato verso dei comportamenti nettamente devianti, che non gli sarebbero mai venuti in mente se non vi fosse stata la lettura di un certo testo. Analoga potrebbe essere la devianza nel caso in cui K sia un filosofo kantiano. Ma pensate ad un metodo come il seguente. Date da leggere all'allievo una serie di opere morali differenti, contrastandole tra di loro. Questa lettura gli fa esplorare diversi paesaggi mentali, e risveglia la sua attenzione e sensibilità alle varietà dei comportamenti umani, delle intenzioni, di modi di realizzarle. Forse avrete ottenuto un soggetto più sensibile, più attento e consapevole della fragilità delle persone e della difficoltà delle interazioni. Un soggetto, in fondo, più morale, in un senso ampio del termine: con maggiori capacità di orientamento nei difficili scenari delle scelte e delle decisioni umane. Ma avrete ottenuto ciò solo per via di produzione collaterale. Egli non applica dei precetti. Il vostro risultato è un effetto essenzialmente collaterale.

Se mi è concesso di riassumere in un paio di slogan questa conferenza, ho da un lato sostenuto una tesi non filosofica riguardo all'interazione tra la filosofia e la vita di tutti i giorni - una tesi che è un invito alla prudenza e alla deliberazione ponderata; e ho dall'altro lato cercato di mostrare come la sensatezza di questo invito dipenda dalla relativa impermeabilità della filosofia - della pratica filosofia - al mondo e alla vita di tutti i giorni. Il filosofo è sicuramente rinchiuso in una torre d'avorio - perché è solo da una torre d'avorio che può contemplare dei paesaggi mentali.