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Roberto Casati

Il cielo nel cratere

 

 

(Flagstaff, giugno 2000)

Non c’è bisogno di elaborate riflessioni filosofiche per comprendere in che senso lo spazio e il tempo sono uniti nello spaziotempo; basta un viaggio nel nord metafisico dell’Arizona, dove (separati da poche ore di auto) troviamo i buchi più interessanti del pianeta. Il Grand Canyon ha richiesto più di venti milioni di anni di scavo da parte di un esercito paziente ma inesorabile di molecole d’acqua. Il Meteor Crater si è formato in una frazione di secondo all’arrivo di un visitatore celeste 50.000 anni fa. I due buchi provano che lo spazio e il tempo sono uniti intimamente perché la forma è il riflesso della storia. Il Grand Canyon si estende per cinquecento chilometri, è largo trenta, profondo fino a millecinquecento metri, e la sua geometria da erosione è un disordine frattale di merletti e fenditure. Il Meteor Crater è una scodella di poco più di un chilometro di diametro, simmetrica come la dissipazione dell’energia nell’impatto che lo ha creato.

Tra le due cavità si estende il Deserto Dipinto, un paesaggio lunare dove crescono ottocento coni di cenere, immensi formicai lasciati dall’attività eruttiva del plateau vulcanico di St. Francisco. Uno di questi coni accoglie un cratere che aggiungerei volontieri alla lista dei buchi più importanti del pianeta. Avvicinandosi in auto lo si vede emergere con una curva dolce nella luce del deserto. Non si distingue all’apparenza dai molti fratelli se non per una certa snobistica eleganza accentuata dall’isolamento. Ma si tratta veramente di un cratere scelto tra mille, di un clamoroso objet trouvé, e la sua forma è artificiale. Il cratere è stato modificato per realizzare un’idea. Un quarto di secolo di lavoro: nulla sulla scala geologica, molto rispetto a un impatto meteorico; e la metà di una vita umana.

Nel 1974 la fondazione Guggenheim offre una borsa di studio a James Turrell, un artista che lavora sfruttando gli aspetti meno concettuali della percezione (si definisce uno scultore di luci). La borsa non gli serve per terminare un’installazione o a recarsi a Parigi a studiare gli impressionisti. La usa per sorvolare l’ovest americano alla ricerca del cratere perfetto: leggeremente sopraelevato in una zona desertica, lontano dall’inquinamento luminoso delle città, a una quota che offra atmosfere rarefatte e cielo terso. "L’aereo – dice Turrell – è il mio atelier". Dopo cinque mesi di volo Turrell volteggia, a nordest di Flagstaff, intorno a un cratere che sembra fare al caso suo. I successivi venticinque anni sono una delle leggende dell’arte contemporanea: Turrell compra il Roden Crater, si trasferisce a Flagstaff, acquista un ranch, ottiene un emendamento dell’Uniform Building Code che gli consente di modificare il vulcano, fa in modo che il piano regolatore locale impedisca attività che generano inquinamento visivo. Turrell modella il Roden Crater per trasformarlo in un’opera d’arte complessa e monumentale, scava tunnel, misura allineamenti celesti, livella i bordi, modella la ciotola, allestisce camere aperte sul cielo. Oggi quaranta persone, coordinate dalla fondazione Skystone, lavorano sul sito per permetterne l’apertura nel 2001.

Nancy Taylor, la responsabile di Skystone, mi spiega che la visita durerà ventiquattrore – quasi un pellegrinaggio. Gli spettatori, otto alla volta, verrano portati al cratere il primo giorno e lasciati da soli per un’esperienza di contemplazione dai ritmi lenti. Esploreranno i tunnel allineati con aspetti salienti del cielo, si immergeranno nella luce del tramonto, pernotteranno nel piccolo rifugio, vedranno l’alba, e saranno infine riportati alla civiltà. Alcuni fenomeni celesti saranno privilegio di pochi eletti: ogni diciotto anni e mezzo l’immagine invertita della luna si proietterà su un monolito nella Camera del Sole e della Luna, alla fine di un tunnel lungo duecentocinquanta metri nel fianco del cratere.

È probabile che un giorno il nome di Roden Crater figuri sulla lista dei grandi templi, da Stonehenge a Jaipur, dedicati alla conoscenza del cielo. L’aspetto più interessante dell’opera è però legato al cielo in un senso non astronomico ma percettivo. Si può capire che cosa Turrell stia cercando di fare nel deserto americano se si visita a Parigi la mostra che gli dedica la fondazione Électra. Potete sedervi di fronte a uno schermo televisivo ultrapiatto perfettamente incassato in un muro bianco. Lo guardate cambiare colore per qualche minuto – dal rosso all’arancio al blu. Vi chiedete quale strano materiale possa avere quella luminosità così intensa. Vi avvicinate, vi fate coraggio, toccate lo schermo. Sorpresa. Non c’è nessuno schermo. La mano penetra senza resistenze in uno spazio soffuso di luce al di là del muro. Ma vi basta allontanarvi anche di un metro perché la nuvola di luce si cristallizzi e ridivenga una superficie solida. Il bordo dello schermo ha di nuovo catturato il colore e lo ha organizzato nello spazio.

Potete ripetere l’esperimento guardando il cielo attraverso l’anello formato da indice e pollice uniti. Se vi concentrate sul riquadro azzurro vedete che tende a invadere il bordo e aderire alle dita. Si tratta di una proprietà dei colori ‘filmari’ studiata all’inizio del ’900 dallo psicologo David Katz. A differenza del colore di questa pagina, che aderisce al foglio e ne sposa la direzione, i colori filmari non hanno un orientamento preciso. Un mondo in cui tutti i colori fossero filmari come quello del cielo si presenterebbe come una nebbia indistinta e luminosa. È il fenomeno del ‘ganzfeld’ o campo uniforme e lo si può sperimentare entrando in Phone Booth, un’altra delle opere di Turrell esposte a Parigi. Si è circondati da una superficie emisferica illuminata uniformemente, si ha a volte l’impressione di toccare la luce con gli occhi, a volte di volare in uno spazio luminoso infinito. Un’esperienza sconcertante di luce pura senza confini. Il messaggio è chiaro: togliete i confini e perderete il mondo degli oggetti per entrare in quello della luce.

Ma basta poco per rimettere le cose al loro posto. Se si lo aggancia a una cornice il colore filmare tende a disporsi nel piano della cornice. È un parassita che beve lo spazio dagli oggetti che lo circondano. Per questo il colori filmari sono anche i grandi assenti dall’arte. La ragione è fin troppo semplice: gli artefatti artistici sono cose che si comprano e si vendono e devono in qualche modo essere tangibili. I colori filmari possono venir catturati solo da cornici vuote e non c’è mercato per le assenze. O almeno, non c’era fino a Turrell. (È interessante che Roden Crater, una delle opere più costose dell’arte contemporanea, la cui realizzazione ha richiesto una ventina di milardi, sia in fondo solo un buco attraversato da tunnel, aperture e trincee.) Turrell ha realizzato molti skyscapes, stanze dal soffitto aperto sul cielo. Gli spettatori seduti o sdraiati vedono il cielo scendere e appiattirsi fino ad aderire al bordo dell’apertura – contrariamente a quanto vuole la canzone di Gino Paoli.

Gli skyscapes sono in un certo senso studi preparatori per la grande cornice del Roden Crater. Il bordo del cratere è stato reso perfettamente lineare. Sul fondo della ciotola quattro grandi monoliti permetteranno ai visitatori di giacere e contemplare il cielo utilizzando il cratere come il più imponente skyscape della serie di Turrell. La scala del fenomeno è tale da attirare l’interesse degli psicologi della percezione, che di solito manipolano parametri semplici usando in laboratorio stimoli impoveriti rispetto alla ricchezza della percezione ecologica. Il Roden Crater presenta per la prima volta la possibilità di percepire a grande scala e nell’abiente naturale i rapporti sottili tra colori e filmari e bordi, di vedere fino a che punto i bordi sono necessari per la costruizione di un mondo di cose dai colori solidi. Shin Shimoyo del Caltech ha scritto nel 1997 un articolo di psicologia della percezione sul Roden Crater. Si è sdraiato sul fondo del cratere. Il cielo gli ha fatto effetto di "un soffitto piatto… come dipinto." Il cielo viene catturato dal cratere, si appiattisce, diventa come un telo tirato sui bordi.

Il cielo che si avvicina a distanza umana e diventa un oggetto d’arte come il vulcano che lo racchiude è la conclusione di un percorso che ha visto i pittori lottare con i vincoli della percezione visiva e al tempo stesso scoprirne le leggi. In una lettera a Louis Aragon degli anni ’40, Matisse scrive di voler sfuggire al "piccolo spazio che circonda la figura… per sentire in me, al di sopra di me, al di sopra di ogni figura, atelier, casa, uno spazio cosmico in cui non si sentono i muri più di quanto i pesci sentano il mare… questo darebbe aria alla pittura, la renderebbe aerea". Matisse ha cercato per decenni di sconfiggere la figura che detta legge alla percezione stagliandosi su uno sfondo impoverito e gregario. Il messaggio di Matisse viene raccolto da Turrell: lo sfondo può diventare figura, può essere più importante di ciò che si situa in primo piano. L’arte può veramente divenire aerea. L’importante è avere un limite. Ci penso mentre guido nel deserto. Devo fare attenzione alla velocità – la polizia da queste parti non perdona – ma sono anche grato all’esistenza di questo limite che mi permette di apprezzare il minimalismo dell’Arizona, paese di soli sfondi, visti in mille westerns e mai osservati con attenzione.

Gli artisti hanno sperimentato per millenni con le immagini e hanno contribuito alla nostra comprensione dei meccanismi della visione. Turrell, a detta di molti, rende incerti i confini tra arte e scienza. Viene però fatto di chiedersi chi abbia mai deciso che ci debbano essere tali confini, che sembrano invece creature del mercato dell’arte e delle accademie universitarie, sempre in cerca di nicchie in cui incasellare le idee e la conoscenza.

 

 

www.rodencrater.org

www.meteorcrater.com

www.grandcanyon.org

http://www.kaibab.org/geology/gc_geol.htm