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Roberto Casati

(Agosto 2000)

Planetari

 

Le rappresentazioni dinamiche del cielo sono da sempre il riflesso di due tipi di conoscenza: la teoria astronomica nota in un certo periodo storico viene presentata usando la migliore tecnologia disponibile all’epoca. I semplici perni delle sfere armillari, geocentriche, hanno lasciato il passo alle meccaniche da orologeria degli orrery, modelli da camera in cui una manovella permette di far ruotare i pianeti intorno al sole. Il planetario ha restituito una visione geocentrica ma l’ha allargata alle stelle grazie alle ottiche di precisione.

Una conferenza al planetario è per molte persone la prima vera introduzione all’astronomia, che permette di capire il significato in tre dimensioni delle nozioni di base (eclittica, azimut, precessione, retrogradazione) sulle quali si può costruire la comprensione matematica e fisica del cosmo. I registi dello spettacolo astronomico al nuovo Rose Center for Earth and Space del Museo Americano di Storia Naturale di New York hanno pensato che fosse giunto il momento di fare un ulteriore passo avanti e spiegare la nuova cosmologia con l’ausilio delle nuove tecnologie, nella fattispecie le immagini digitali e le presentazioni multimediali. Il risultato è certo spettacolare, ma ha un qualche valore didattico? È comunque istruttivo: ci permette di capire che cosa rischia di riservarci la "divulgazione scentifica" del futuro.

Lo show si apre su una dimostrazione della nitidezza del proiettore Zeiss Mark IX che copre la volta del cielo con le sue 9100 stelle. Putroppo gli subentrano subito i grossolani pixel multimediali del film "Passaporto per l’universo", uno spot hollywoodiano (molto costoso: 15 dollari per 18 minuti) che si riduce a una zoomata all’indietro da Central Park alla terra al sistema solare, via via fino alla galassia, agli ammassi e alle macrostrutture del cosmo, con un rientro nelle vicinanze della terra dopo il passaggio da un osceno buco nero. Il tutto accompagnati dalla voce fuori campo di Tom Hanks e da una musica epica che evoca quella di Independence Day. (Ricordiamo di passaggio che già nel 1968 Charles e Ray Eames avevano prodotto il classico "Powers of Ten" che narra in modo assai più sobrio lo stesso viaggio e anche quello speculare verso il mondo microscopico.)

Si fa rimpiangere l’onestà della vecchia conferenza al planetario, la possibilità di fare domande, lo sforzo di spiegare cose in sé non facili senza nasconderne la difficoltà, l’intervento del conferenziere che può ripetere le cose non capite. Si fa rimpiangere l’uso in tre dimensioni della cupola del planetario, che serviva a un primo orientamento delle direzioni celesti: "Passaporto per l’universo" potrebbe benissimo venir visto sul televisore di casa. Il difetto principale del filmino è la ricerca dell’effetto con l’illustrazione di un pensiero semplice che tutti hanno comunque già capito: "L’universo è molto grande". Il che mostra come spesso una frase possa fare più di mille immagini, un fatto rimosso ad arte dai divulgatori multimediali. La conoscenza non si avvale di immagini se non occasionalmente, e tanto meno si può sperare di spiegare la forza di gravità mostrando l’inesistente "effetto" che ci farebbe il tuffo in un buco nero. In un altro show, narrato questa volta da Jodie Foster nella sala sotto il planetario, ci viene proposto un viaggio nel tempo. Potrete partecipare intimamente al Big Bang, il che significa che verrete assordati dal suo "rumore" e verrete abbagliati dalla sua "luce". L’abbaglio vero è quello di una conoscenza facile, immaginifica e basata sulle impressioni soggettive, che dovrebbe sostituire la comprensione discorsiva, matematica e impersonale. Gli unici concetti che si riesce più o meno a illustrare e far "sentire" sono quelli legati alla scala dell’universo, e la modestia di questo progetto didattico si misura dalla sola reazione che pare provocare nel pubblico, un coro di "Wow" ammirati.