Roberto Casati

(Nov 2000)

Recensione di

David Park, Natura e significato della luce

(364 p., ill. 1998 , McGraw-Hill Libri Italia, Collana Dynamie L. 51.000)

 

La luce e la tenebra sembrano richiamarsi a vicenda. La fenomenologia delle tenebre non non è quella di un’assenza, di una cosa negativa. Michelangelo ce lo ricorda creando sotto i nostri occhi un’immagine fulminea: "Ogni van chiuso, ogni coperto loco, / quantunque ogni materia circumscrive, / serba la notte, quando il giorno vive, / contro al solar suo luminoso gioco./ E s'ella è vinta pur da fiamma o foco / da lei dal sol son discacciate e prive / con più vil cosa ancor sue specie dive…" (dalle Rime, componimento 103). Il poemetto chiude un libro brillante e istruttivo di David Park, The fire within the eye (Princeton University press, 1999) che narra la storia dei molti modi in cui l’umanità ha concepito la luce.

Il concetto di luce del senso comune è inestricabilmente legato alla vista. Come molti altri concetti, ha una prima radice nella fenomenologia e un’altra in semplici riflessioni su come funziona la vista. La fenomenologia della visione è più che eloquente. Ci basta chiudere gli occhi per ritrovarci nelle tenebre. Se diminuiamo la luce non distinguiamo più i dettagli delle cose, e troppa luce ci abbaglia. Riflettendo sulla visione arriviamo ben presto a pensare che occorra postulare un tramite tra l’occhio e gli oggetti che vediamo. Saldiamo fenomenologia e riflessione quando ipotizziamo che il tramite sia la luce. Col senno di poi non sorprende che ci siano voluti millenni per creare una nozione scientifica di luce che sfuggisse ai vincoli della percezione. Quello che sorprende è la varietà di teorie della luce proposte nel corso del tempo. Si direbbe che negli interstizi lasciati liberi tra i nostri concetti ordinari possano intrufolarsi e competere immagini molto diverse. Per esempio, ci deve essere un qualche collegamento tra l’occhio e la cosa vista. Ma il senso comune non prescrive una direzione a questo collegamento. Si tratterà di raggi visivi che vanno dall’occhio all’oggetto? O invece di raggi che vanno dall’oggetto all’occhio? Oppure ancora di un collegamento rigido, senza direzione privilegiata, come il bastone con cui i non vedenti possono esplorare il mondo? E anche sui raggi ci si è messi d’accordo con molto ritardo. In fondo nell’occhio e nella mente sembrano entrare le cose intere, non mosaici di colori: il tramite per la visione non sarà allora la scorza delle cose, che se ne distacca e viaggiando verso l’occhio rimpicciolisce fino ad infilarsi nella pupilla? Intorno all’anno Mille Alhazen presenta il primo modello matematico della luce che risolve la questione in modo soddisfacente (da ogni punto sulla superficie di ogni oggetto visto vengono riflessi raggi in tutte le direzioni, e questo implica che nell’occhio convergano raggi che ci informano sui diversi punti dell’oggetto) - e dà dignità all’interpretazione scientifica dei fenomeni luminosi, erodendo la base fenomenologica del concetto. E la fisica - passando per Newton - ha teso a occupare tutto lo spazio concettuale. La battaglia disperata di un autore come Goethe ha cercato di far valere la componente fenomenologica del concetto di luce. Goethe non riesce accettare l’idea che il bianco sia una "somma" di tutti gli altri colori, e vede il colore come un fenomeno che si produce al confine tra luce e oscurità. L’errore di Goethe è stato di contrastare il newtonianesimo sul piano della fisica - proprio laddove l’avversario era imbattibile. Wittgenstein ha localizzato perfettamente il problema sostenendo che non c’è qui una competizione tra teorie opposte, solo una divergenza su che cosa sia una teoria della luce.

Le lezioni filosofiche che possiamo trarre dalla luce sono due. Da un lato, possiamo usare l’aspetto fenomenologico per fissare il riferimento di un termine come ‘luce’ la cui componente teorica si lascia catturare, per il senso comune, solo attraverso complesse analogie. In tal modo possiamo continuare a parlare della luce attraverso teorie, culture e storie diverse. D’altro lato, apprendiamo che l’analogia è una forma molto debole e insoddisfacente di rappresentazione della realtà. I filosofi hanno fatto della luce un’ "emanazione" della divinità, si sono chiesti se fosse "sostanza" o "accidente", i fisici hanno cercato a lungo un "mezzo", l’etere, che potesse "trasmettere" la luce. Il problema si complica con il ventesimo secolo. Disponiamo solo di analogie imperfette per concepire un’entità che ha una "velocità" assoluta, indipendente da qualsiasi sistema di riferimento, che in certe circostanze si comporta come un’ "onda" e in altre come una "particella", che nel "viaggiare" da un punto a un altro lungo uno di due soli "percorsi" possibili definiti da due fori in uno schermo mostra di essere in grado di "vedere" se il foro da cui non "passa" è aperto o chiuso. Come afferma Park, la natura "ha una certa reticenza nell’adattarsi alle nostre abitudini linguistiche e al nostro modo di pensare. Siamo noi a doverci adattare, ma l’esperienza degli ultimi cento anni mostra che l’adattamento non è facile… i bordi della luce si muovono, ma restano le ombre".